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Osate! Ma non troppo: il paradosso dell’obiettivo ambizioso

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Nelle nostre precedenti newsletter, Dal bianco e nero al technicolor e Il paradosso dell’identità, abbiamo scoperto le risorse nascoste in paradossi e polarità, sia in relazione all’ambiente che ci circonda che al rapporto con noi stessi. Abbiamo esplorato come si può rimanere fedeli ai propri valori fondamentali e allo stesso tempo coltivare quella flessibilità che ci permette di imparare e crescere. Abbiamo iniziato a capire come funzionano le narrazioni che costruiamo su noi stessi e come, piuttosto che rimanerci intrappolati, possiamo esserne l’autore e scriverle coscientemente, scegliendo una parola dopo l’altra.

Invigoriti da tutto questo potremmo sentirci pronti per il prossimo grande passo, per fare un salto nel futuro, reinventare una nuova versione di noi stessi e ciò che conosciamo. Ma attenzione a non fare il passo più lungo della gamba: potremmo ritrovarci nel paradosso dell’obiettivo ambizioso [1].

Gli obiettivi ambiziosi nelle aziende

Innanzitutto, che cos’è un obiettivo ambizioso? È obiettivo caratterizzato da:

  • Estrema difficoltà, ovvero aspettative radicalmente superiori a quelle che ci siamo posti fino ad ora, considerando le nostre capacità e prestazioni attuali.
  • Estrema novità, ovvero percorsi e approcci nuovi di zecca necessari al raggiungimento di questo tipo di obiettivo. In altre parole, è necessario lavorare in modo diverso, non semplicemente lavorare di più.

 

Questo paradosso, individuato da Sitkin, Miller e See nella loro ricerca su un vasto campione di organizzazioni mostra che, contro intuitivamente, quelle che si pongono degli obiettivi ambiziosi sono quasi sempre aziende non di successo o addirittura sull’orlo del fallimento. Può sembrare incredibile, data la quantità di risorse e conoscenze che sembrano essere necessarie per intraprendere un’avventura così ardua. Infatti, la chiave per il raggiungimento di un obiettivo ambizioso è avere:

  • Un record corrente di successi
  • Un surplus di risorse

 

Questi due elementi sono necessari per supportare i rischi e assorbire i fallimenti. Ogni innovazione, infatti, ogni nuova strada che decideremo di intraprendere sarà lastricata da piccoli mattoncini di insuccesso: cose che abbiamo provato e non hanno funzionato, ma da cui abbiamo imparato e che ora ci stanno mostrando il percorso da seguire. Come i mattoni dorati di Dorothy nel mago di OZ, appariranno a poco a poco indicando la strada verso il castello.

Come dicevamo però, dai risultati della ricerca emerge che proprio le aziende con solo uno di questi elementi, o addirittura nessuno dei due, sono quelle che più probabilmente tenteranno il colpo grosso, con risultati statisticamente negativi poiché stanno facendo un investimento che non si possono permettere di sostenere. Come mai si prendono questo rischio dal destino già quasi certamente segnato?

Perché siamo comunemente più inclini a correre rischi quando sentiamo di non avere nulla da perdere. È proprio quando siamo rassegnati al fallimento che giochiamo il tutto per tutto, quindi proprio nel momento peggiore per farlo. Come ha dimostrato la ricerca Premio Nobel di Daniel Kahneman e Amos Tversky, il fallimento favorisce nei leaders la propensione al rischio. Quando si deve scegliere tra un’azione audace e una sicura, chi si trova in difficoltà di solito favorisce il percorso aggressivo, mentre il successo tende a creare un’avversione al rischio[2].

Più abbiamo, più ci attacchiamo a ciò che abbiamo per paura di perderlo, non cogliendo quel momento che invece sarebbe ideale per provare il salto di qualità: quando siamo sulla cresta dell’onda. Come i surfisti, non si prova a mettersi in piedi e fare un doppio salto mortale quando ormai l’onda ci sta schiacciando e ci stiamo catapultando sulla riva in malo modo, ma quando ci si trova sulla cresta dell’onda con il supporto dell’acqua sotto la tavola e un equilibrio saldo.

Gli obiettivi ambiziosi che poniamo a noi stessi

Riflettendo, ci sembra che ciò che è vero per le aziende lo sia anche per le persone. Restiamo attaccati alle nostre “strategie”, o sia i nostri schemi comportamentali abituali o modalità di risposta predefinita, come se fossero l’unica certezza che abbiamo modo di avere, spesso solo perché hanno funzionato in passato. Ci godiamo l’ondata di successo che ci hanno portato e abbiamo paura di perderla se cambiamo qualcosa: il successo, anche qui, ci rende avversi a tentare qualcosa di nuovo.

Ma è esattamente mentre stiamo cavalcando questa onda che dovremmo fare il salto di qualità. Proprio questo è il momento di correre qualche rischio: quando la nostra reputazione è solida, il nostro morale è alto, la fiducia in noi stessi è forte e gli altri credono in noi. Questo è il momento in cui sperimentare e assorbire il fallimento, il momento di iniziare a comportarci come i leader e le persone che vogliamo diventare.

Non dobbiamo aspettare di logorare quelle dinamiche abituali che non funzionano più. Come nel caso di Rita, una manager con cui abbiamo recentemente lavorato, che è rimasta ancorata al suo approccio abituale nella guida di un nuovo team, un approccio che l’aveva fatta arrivare ad essere a capo di quella squadra, ma che nel nuovo contesto e con quello specifico gruppo di persone non funzionava più. I segni di disagio diventavano sempre più evidenti, la mancanza di connessione di coesione nella squadra anche, ma Rita continuava ad applicare la sua strategia, quella che conosceva, senza provare nuove strade. Questo irrigidimento ha logorato un po’ per volta la sua credibilità e il sostegno dei colleghi, così che, quando sulla via del declino ha tentato il tutto per tutto, disposta ad un cambiamento dei suoi comportamenti quasi radicale, non ha comunque funzionato, poiché non aveva ormai più fiducia, supporto, tempo…erano venuti a mancare il record di successi e il surplus di risorse, e il tentativo di raggiungere quell’obiettivo ambizioso è fallito.

Cosa ci aiuterebbe quindi ad immergerci in nuove sfide alla ricerca di nuovi traguardi senza incorrere nella trappola dell’obiettivo ambizioso?

  1. Stabilire obiettivi di apprendimento, non solo obiettivi di performance. Imparare è il mattone d’oro che pavimenterà la strada per il raggiungimento del nostro obiettivo finale.
  2. Perseguire piccole vittorie e piccole perdite. Non c’è bisogno di un radicale cambiamento che ci faccia sentire estranei a noi stessi. Piccoli cambiamenti ci daranno la libertà di sperimentare e, attraverso prova ed errore, vedremo cosa funziona per noi e la nostra organizzazione e cosa no.
  3. Assicurarsi un surplus di risorse. Facciamo scorta di energia, fiducia, conoscenze e supporto prima di fare il prossimo grande passo – e poi facciamolo finché tutte queste condizioni persistono.
  4. Divertirsi! Non siamo lavatrici con il libretto delle istruzioni. Siamo un incontro di paradossi, un’unione di opposti, abbiamo questo E quello e possiamo mescolare e abbinare le nostre risorse e capacità per costruire con creatività un’identità che ci riflette.
  5. Rimanere in contatto con noi stessi. Per tutto quanto sopra, assicuriamoci sempre che sia in linea con ciò che conta di più per noi. Fermiamoci, respiriamo e cerchiamo di capire se ciò che stiamo facendo rispetta i nostri valori fondamentali e, se sì, via libera!

Conclusione

La letteratura generale ci invita a iniziare il nostro percorso di leadership con un chiaro senso di noi stessi. Ma questo senso di chi siamo, se statico, può farci rimanere bloccati nel passato. Naturalmente, siamo programmati per evolvere come persone e come leaders, affrontando nuove sfide e esponendoci oltre i limiti di ciò che conosciamo, uscendo dalla nostra zona di comfort e imparando strada facendo. Crescita e cambiamento ci circondano e non possiamo fermarli. Quindi, capiamo qual è la direzione giusta per noi e … godiamoci il viaggio!

Scritto da Anna Gallotti e Selika Cerofolini

[1] SIM B. SITKIN, C. CHET MILLER, AND KELLY E. SEE. The Stretch Goal Paradox. HBR, January-February 2017
[2] Kahneman, D. & Tversky, A. (1979). Prospect Theory: An Analysis of Decision under Risk. Econometrica, 47 (4)

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